Questo post nasce da una recente riflessione di Claudia… sì, la mitica Claudia Dallabona dell’interessantissima rubrica Viaggiare Leggeri sul blog il pasto nudo. Claudia, italianissima, con venature tedesche (per indole e per esperienza vissuta sul Mar Baltico; la mia “culla”), per ora è trapiantata a Johannesburg, dove vive e sperimenta un altro pezzo del nostro grande mondo. Pensa e ripensa, gentilmente ha accettato di scrivere anche nel mio locus virtuale.

Innanzitutto grazie a Sabine, che mi ha aperto la porta di questo bellissimo luogo, regalandomi la possibilità di condividere con voi alcune idee che pernottano da qualche settimana nella mia mente.

Sono ritornata da poco a “casa” (no, anche se hanno detto “welcome home”, al controllo passaporti dell’aeroporto, ancora non me la sento di scriverlo senza virgolette ;-)), dopo aver trascorso un mese in Italia. Proprio all’aeroporto di Monaco mi è saltato tra le mani un giornale, Praxis:Natur. E un articolo: Keine ruhige Minute (= neanche un minuto di calma).

La giornalista, Isabell C. Krone, racconta di una donna, Carmen, organizzatrice di eventi per una importante agenzia. È una storia apparentemente normale, quotidiana. Carmen è sempre accesa. Sempre raggiungibile (ai clienti, naturalmente, non piace aspettare, quando hanno domande o problemi da risolvere).
Non ha più tempo per vedere i suoi amici. In compenso ne ha 500, in Facebook, e twitta regolarmente, in modo che almeno sappiano cosa sta facendo. Inizia la sua giornata collegandosi ad Internet mentre è ancora a letto, guarda cosa hanno fatto i suoi amici e scarica le mail. Quando esce per divertirsi ha comunque sempre con sé il cellulare, al quale risponde e col quale può collegarsi in internet.

Da qualche tempo dorme male. Certe volte riesce a dormire solo dopo che ha controllato per l’ennesima volta se ci sono messaggi, se qualcuno le ha risposto o fatto delle domande. Spesso si sveglia con la paura di essersi dimenticata qualcosa. Durante il giorno, la pessima qualità del suo riposo la porta ad essere più nervosa del solito. E questo innesca il loop diabolico, perché la rende insicura e confusa, ed aumenta la necessità di utilizzare ogni minuto libero per controllare e ricontrollare facebook, posta e messaggi vari.

Questa è la storia. Che mi ha obbligata a fermarmi, staccare tutto e riflettere (stranamente, proprio nel momento in cui l’intera città era alle prese con enormi problemi di connessione ad internet ed io altrettanti gastroenterici. Nulla succede per caso ;-)).

Non voglio fare la Savonarola de noartri. Anch’io, come molti, cado nella trappola della visibilità, del labile confine pubblico/privato, dell’esternazione indifferenziata. Continuo a chiedermi quando abbiamo smesso di porre limiti. Confini. Confini di spazio e di tempo.

Prima di tutto, il confine tra lavoro e vita privata. Gioia del capitalismo, la chiama ironicamente un amico di qua. Non ti devono nemmeno più obbligare a staccare. Nemmeno in pausa pranzo (una volta, quando lavoravo in Italia, mi era vietato mangiare in ufficio e/o davanti al computer, perché “bisogna staccare, dice la legge”. Ed ero il capoufficio, per dire ;-)).

Ma soprattutto il confine tra vita privata e pubblica.
Mi sembra che la maggior parte della gente, in Italia, non abbia una vita privata. Che tutto sia pubblico. Tutto su un blog, su twitter, su facebook. Tutto davanti ad uno schermo blu. Tutti devono sapere come sto stamattina, cosa ho mangiato ieri a cena, cosa dice mia figlia di 6 anni che, chiaramente — come tutti i figli di chi è in facebook o ha un blog — è un genio, fa disegni meravigliosi e dice battute che in confronto i fratelli Marx eran dei cabarettisti di quart’ordine.

Come fa uno che in facebook ha 500 amici ad ascoltarli tutti? Lo usa come un palcoscenico, come un enorme megafono. Il punto è che tutti hanno un megafono in mano e parlano, ma quanti ascoltano? Non si può, nemmeno volendo, ascoltare con attenzione tutto quello che dicono quotidianamente 500 persone.

Mi sembra una nazione di attori che non riescono più a scendere dal palco, ormai dipendenti dagli applausi e dai “mi piace” del pubblico (sì, perché c’è solo l’opzione “mi piace”, con tutto ciò che comporta — vedi non accettazione delle critiche, per dirne una). Un one-man show, una maratona di 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno a dire chissà quali verità ad un mondo di adulanti ascoltatori.
A parte l’enorme perdita di tempo, che magari si potrebbe impiegare in modi un filo più costruttivi. Una sorta di elogio della procrastinazione.

Ci sarebbero, poi, le conseguenze di questo stress continuo e prolungato sul nostro sistema digestivo, sullo stomaco, sul fegato, sulle ghiandole surrenali. Magari ci preoccupiamo dell’effetto sul nostro corpo della paura che hanno avuto gli animali mentre venivano portati al macello e uccisi (con tutto il rispetto, che son quasi vegetariana e la sento anch’io), ma non ci rendiamo conto che la dipendenza dalla comunicazione (c’è anche un nome, per questo: nomofobìa, paura di stare senza cellulare; anche se mi sembra più una dipendenza) porta effetti negativi centinaia di volte maggiori.
Ma per questo c’è Sabine. ;-)

E, poi, il cellulare. Che fa le foto, che si collega a internet, con cui scarichi la posta. Tutto *mentre*.
Sono in treno, attraverso paesaggi. Ma non penso. Non scrivo riflessioni private, per poi rifletterci. Non sto *dentro*. No. Scatto una foto col cellulare, scrivo dove sono, con chi, come mi sento. Mi sto gustando una colazione coi fiocchi, appena alzata, magari in una pensioncina persa nel nulla. La fotografo e la faccio vedere a 200 persone in diretta. Tutte lì, che mangiano con me.

Ecco, a me questo horror vacui, questa paura di stare da soli con le proprie emozioni, mi ha fatto un’impressione che non vi potete immaginare. Forse perché gli ultimi anni li ho trascorsi in una cittadina dell’ex DDR sul Mar Baltico. Ed ho recuperato ritmi e spazi perduti. O perché non vivo in Italia.
Non è che rimpiango le file alle uniche due cabine telefoniche nell’atrio dell’università. È una fortuna avere un cellulare in borsa. Non si sa mai.

Ma quante volte, mi sono chiesta durante queste vacanze, non possiamo aspettare? Cosa succede se qualcuno mi chiama ed io sto facendo la spesa e non rispondo? Come vivevo quando avevo vent’anni, senza cellulare? A me non sembra di ricordare grandi catastrofi dovute all’assenza di rete.
*Mentre* si prendono i figli a scuola e *mentre* si passeggia sul lungolago. *Mentre* si mangia una pizza con gli amici, e pure ad alta voce (a proposito, qui c’è un ristorante — pare più di uno, in realtà – dove i cellulari sono vietati. Guardate un po’, lo scrivono perfino in fondo ad ogni pagina del menu ;-)).

Questo *mentre* mi inquieta. Mi hanno detto che noi donne siamo multitasking, che facciamo mille cose contemporaneamente. No, mi spiace. Vivo molto meglio facendone una alla volta, senza mentre. E, preferibilmente, dal vero. ;-)

Post scriptum (di Sabine):
Per certi versi il mondo virtuale assomiglia ad un incredibile labirinto senza via di uscita! Sicuramente trattasi di un esperimento umano su grande scala. In origine volevo aggiungere alcune considerazioni mediche su questo scottante tema… ma sarebbe troppo lungo e rimando quindi ad una seconda puntata.
Intanto ci farebbe molto piacere leggere la vostra opinione personale :-)